Cotarella: l’Italia ha un patrimonio enologico irripetibile ma difetta di imprenditorialità
La gestione della produzione non può fagocitare tutto, c’è la necessità di una maggiore conoscenza delle dinamiche commerciali e comunicative da parte dei produttori.
Di Emanuele Fiorio
Mutamenti della domanda di mercato, sviluppo del biologico, strategie export, sfide legate al calo della domanda e alla sovrapproduzione, progetti internazionali, gap rispetto ai competitor francesi: abbiamo voluto approfondire questi temi chiave con il Presidente di Assoenologi, Riccardo Cotarella.
In Italia negli ultimi dieci anni si è verificato un incremento del 125% della superficie dedicata a vigneti biologici certificati, il nostro Paese detiene il primato mondiale: 117.00 ettari di vigneti, il 18% del totale nazionale. Potremmo essere riconosciuti come i paladini del vino biologico nel mondo, stiamo riuscendo a far emergere questa leadership sui mercati internazionali?
Direi che lentamente sta emergendo, laddove il metodo biologico è condotto in maniera scientifica nei territori vocati (colline ben esposte, assolate, ventilate) è un processo che garantisce qualità e sostenibilità.
È un modo di approcciarsi alla viticoltura in ascesa, anche perché è aumentata la conoscenza delle zone dove è possibile applicarla e raggiungere i risultati migliori. Dobbiamo anche capire i motivi per cui alcune aziende, pur adottando concretamente misure biologiche, non rivendicano la propria produzione biologica, come succede ad esempio in Sicilia. In sostanza il rischio quanti-qualitativo non viene riscattato in termini di valorizzazione del prodotto finale.
Questo aspetto non deve assolutamente essere messo in sordina, laddove c’è una applicazione scientifica e seria del biologico, sussistono tutti i motivi perché questo elemento emerga anche a livello comunicativo.
Il rapporto dei giovani con il vino differisce dalle generazioni precedenti: sono meno consapevoli dei nomi noti, più propensi a esplorare, attenti alla moderazione, più aperti ai formati alternativi e ricercano occasioni di consumo esperienziali. Quali sono le risposte che le aziende possono fornire di fronte a questi mutamenti della domanda di mercato?
Ormai sono anni che il mutamento ha fatto la sua apparizione, bisogna tenere ben presente che il vino è anche un elemento culturale. Oggi il vino è un veicolo per conoscere l’evoluzione e la storia legate alle nostre tradizioni, alla nostra terra. Il consumo intelligente e consapevole è parte del patrimonio di chiunque ami il vino, ed il vino stesso non è più semplicemente un alimento.
I giovani hanno un approccio differente, basta vedere l’evoluzione dell’enoturismo: vogliono conoscere le aziende, i vigneti e poi i vini.
Il mondo è cambiato, negli anni ‘60 il consumo pro-capite era di 130 litri, oggi siamo a 30 litri. Il vino è la bandiera della nostra biodiversità, un motore di evoluzione culturale. Quando mai un giovane come lei avrebbe fatto queste domande 40 anni fa?
Dopo i pesanti dazi sul vino australiano, la Francia si è imposta come il principale fornitore della Cina, anche grazie alla presenza di uffici di rappresentanza come quello del CIVB di Bordeaux. La recente visita di Stato in Cina del presidente francese Macron, ha ulteriormente rafforzato i legami nel settore vinicolo tra i due Paesi. Non le sembra che l’Italia dimostri un notevole ritardo su questo fronte di mercato? Quali potrebbero essere le strategie adeguate?
I francesi si sono mossi prima di noi, mentre noi ci sollazzavamo in quanto primi produttori in volume al mondo. Loro sanno raccontarsi molto meglio di noi, comunicano in maniera professionale, anzi professionistica. Però attenzione, siamo partiti dopo ma stiamo recuperando. Quando un consumatore esperto ed imparziale viene a conoscenza del nostro patrimonio enologico, si rivolge più a noi che alla Francia. Abbiamo peccato in passato di autolesionismo, non siamo stati capaci di raccontare i nostri tesori ed anziché coalizzarci, ci siamo combattuti.
In Francia come in Italia, il calo della domanda e la sovrapproduzione rappresentano criticità irrisolte. Secondo le stime francesi, per fare la differenza sarebbe necessario estirpare almeno 15.000 ettari di vigneti. Ritiene che possa essere una strategia valida e attuabile anche nel nostro Paese?
In parte già lo applichiamo, ma utilizziamo metodi meno drastici. La maggior parte delle uve DOC può essere regolamentata attraverso i Consorzi. In Francia Bordeaux ha chiesto l’estirpazione dei vigneti, potremmo farlo anche noi in zone cronicizzate ma se riusciamo a bilanciare la domanda e l’offerta potremmo evitare queste dinamiche estreme. I nostri agricoltori dovrebbero avere un approccio un po’ più imprenditoriale, la gestione della produzione non può essere avulsa dal mercato.
La sua nuova sfida riguarda un nuovo progetto per rilanciare il vino della Georgia, Paese emblema della viticoltura mondiale. L’obiettivo generale è quello di valorizzare e garantire ai vini e ai vitigni georgiani l’importanza che storicamente meritano. Questo processo gioverà al comparto italiano o fornirà al mercato globale un competitor più agguerrito?
Anche se lo volessimo non potremmo fermare questo processo, “il fiume va sempre al mare”. La Georgia è la madre della vite, hanno trasformato una pianta rampicante in un albero da frutto. Purtroppo sono rimasti fuori dall’aggiornamento culturale ed enologico per decenni. Hanno territori molto vocati, ho accettato questa cosa perché si tratta della mia ciliegina professionale. Per chi fa il mio mestiere questa è la gratificazione massima.
Non mi preoccupo della concorrenza perché il vino non è un materiale inerte, lo stesso vitigno produce risultati differenti in base al territorio, ad esempio il Sangiovese è differente in base al terroir in cui è coltivato. Noi abbiamo i nostri vitigni, i georgiani i loro.
Il gap in valore tra noi ed i francesi è sempre più ampio (anzi il più alto di sempre) lo dimostrano anche gli ultimi dati: nel 2022 la forbice del valore vede l’Italia fermarsi a 3,58 euro al litro, mentre i francesi raggiungono gli 8,8 euro al litro (+16%). Quali sono i fattori che possono concretamente aiutare a colmare questo divario e perché sinora non siamo stati in grado di farli emergere?
I nostri vini DOC hanno fatto dei grossi passi avanti, ma rispetto alla Francia abbiamo un grosso gap non decennale, bensì secolare. Dobbiamo tenere la barra dritta sul bilanciamento domanda-offerta. Un produttore ha 2 armi per mantenere l’equilibrio: puntare sulla qualità e non produrre più di quello che il mercato richiede. È fondamentale non andare mai in eccedenza di produzione, altrimenti si è costretti a svendere e abbassare il prezzo medio.
In realtà molte DOC hanno già lavorato in questo senso, il problema è che alcuni produttori non riescono a gestire questi aspetti, si tratta di una mancanza di imprenditorialità. Alle volte noi produttori siamo presi da questioni che esulano dal mercato e questo ci danneggia. Si avverte la necessità di una conoscenza maggiore delle dinamiche del mercato da parte dei produttori.